Progressioni verticali, consentito lo svolgimento di prove di esame?

Tratto da neopa.it

Come noto, l’art. 52, comma 1 bis, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (modificato dall’art. 3-ter, comma 2, lett. c), del D.L. 9 gennaio 2020, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 5 marzo 2020, n. 12 ed infine sostituito dall’art. 3, comma 1, D.L. 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2021, n. 113), in vigore dall’8 agosto 2021, prevede che “…Fatta salva una riserva di almeno il 50 per cento delle posizioni disponibili destinata all’accesso dall’esterno, le progressioni fra le aree e, negli enti locali, anche fra qualifiche diverse, avvengono tramite procedura comparativa basata sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio, sull’assenza di provvedimenti disciplinari, sul possesso di titoli o competenze professionali ovvero di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno, nonché sul numero e sulla tipologia de gli incarichi rivestiti”.

Prima delle modifiche apportate dal citato art. 3, comma 1, del D.L. 9 giugno 2021, n. 80, (convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2021, n. 113), la stessa disposizione di legge prevedeva invece che “Le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l’amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso. La valutazione positiva conseguita dal dipendente per almeno tre anni costituisce titolo rilevante ai fini della progressione economica e dell’attribuzione dei posti riservati nei concorsi per l’accesso all’area superiore”.

Quindi, a seguito delle modifiche introdotte dal D.L. 80/2021, le progressioni verticali non avvengono più attraverso un concorso pubblico con riserva di posti, bensì mediante una procedura comparativa, “basata sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio, sull’assenza di provvedimenti disciplinari, sul possesso di titoli o competenze professionali ovvero di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno, nonché sul numero e sulla tipologia degli incarichi rivestiti”.

La domanda che molti enti si pongono è se questa nuova disciplina dell’istituto sia compatibile con lo svolgimento di prove simili a quelle previste nelle procedure concorsuali vere e proprie.

Sull’argomento, tuttavia, si registrano orientamenti diversificati da parte della giurisprudenza amministrativa.

Invero, secondo il TAR della Puglia (cfr. sentenza n. 538 del 30 aprile 2024), anche l’art. 52 comma 1-bis, del D.Lgs. n. 165/2001 “richiede una verifica sul possesso delle competenze professionali del dipendente che aspira alla progressione verticale, da svolgere nell’ambito di una procedura comparativa riservata ai dipendenti in possesso del medesimo titolo di accesso previsto per i concorrenti che provengono dall’esterno. In altri termini, anche a voler tener conto dell’art. 52 comma 1-bis, del D.Lgs. n. 165/2001, la disposizione nel prevedere la necessità di un accertamento delle competenze professionali, stabilisce che ciò avvenga mediante procedura comparativa, che può ben comprendere lo svolgimento di una prova orale” (colloquio, come previsto dal regolamento del comune resistente).

Secondo il TAR del Lazio, invece, non può negarsi che con la norma in esame “il legislatore abbia voluto, a regime, sancire la prevalenza, in sede di progressione dall’una all’altra area funzionale, dell’esperienza professionale maturata dal dipendente pubblico rispetto al superamento di prove di concorso” (cfr. sentenza n. 5920 del 25 marzo 2024).

Ora, a nostro avviso, quella contenuta nel più volte citato art. 52, comma 1-bis, del D.Lgs. 165/2001, rappresenta un’elencazione tassativa ed esaustiva (e, quindi, insuscettibile di essere estesa discrezionalmente) degli elementi su cui si deve fondare la valutazione comparativa prevista dalla legge, ma, vista l’esistenza di interpretazioni giurisprudenziali discordanti, sarebbe opportuno che il Dipartimento della funzione pubblica facesse chiarezza sul punto.

Attività lavorativa durante la malattia: quando è legittimo il licenziamento?

Tratto da neopa.it

Con l’ordinanza n. 12152 del 6 maggio 2024, la Sezione Lavoro della Cassazione ha ribadito il principio secondo cui, “In materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività, lavorativa o extralavorativa, durante l’assenza per malattia del dipendente, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia in questione sia simulata ovvero che la predetta attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo, atteso che l’art. 5 della I. n. 604 del 1966 pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova di tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato” (Cass. n. 13063 del 2022, cui si rinvia per ogni ulteriore aspetto sulla questione).

I Giudici hanno infatti ricordato che non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attività, anche a favore di terzi, in costanza di assenza per malattia, sicché ciò non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d’opera (ab imo, Cass. n. 2244 del 1976, con un postulato mai smentito dalla giurisprudenza successiva; tra molte: Cass. n. 1361 del 1981; Cass. n. 2585 del 1987; Cass. n. 381 del 1988; Cass. n. 5833 del 1994; Cass. n. 15621 del 2001; più di recente, v. Cass. n. 6047 del 2018, la quale osserva che il lavoratore assente per malattia “non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un’attività ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona”); l’assunto trova fondamento nella nozione di malattia rilevante a fini di sospensione della prestazione lavorativa e che ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità abbia determinato, per intrinseca gravità e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale – sebbene transitoria – incapacità al lavoro del medesimo (cfr., tra tutte, Cass. n. 14065 del 1999), per cui, anche là dove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività.

Tuttavia, precisa l’ordinanza, la stessa giurisprudenza prima citata ha, da subito, precisato che il compimento di altre attività da parte del dipendente assente per malattia non è circostanza disciplinarmente irrilevante ma può anche giustificare la sanzione del licenziamento, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, sia nell’ipotesi in cui la diversa attività accertata sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, sia quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore (tra molte: Cass. n. 1747 del 1991; Cass. n. 9474 del 2009; Cass. n. 21253 del 2012; Cass. n. 17625 del 2014; Cass., n. 24812 del 2016; Cass. n. 21667 del 2017; Cass. n. 13980 del 2020).

In Italia si guadagna meno che nel 1990, è l’unico paese Ue dove i salari reali sono scesi

Tratto da quifinanza.it

Il salario reale di un lavoratore in Italia è diminuito da 30 anni a questa parte, in quanto nel 1990 si guadagnava di più rispetto a oggi. A evidenziarlo è una classifica Ocse che, basandosi sui dati Eurostat sui redditi medi dei Paesi membri dell’Unione Europea, ha sottolineato come il salario rapportato ai prezzi odierni è in calo drastico rispetto al 1990.

Numeri impietosi per l’Italia, soprattutto guardando allo scarto con gli altri Paesi membri che hanno saputo rispondere nel tempo all’inflazione che ha eroso, via via sempre più, gli stipendi degli italiani.

Salario reale, un passo indietro dal 1990

I dati sui quali è stata stilata la classifica Ocse sono quelli relativi ai salari reali dei Paesi dell’Eurozona registrati da Eurostat. Numeri che certificano, senza alcun dubbio, il passo indietro dell’Italia. Il nostro Paese, e soprattutto i nostri lavoratori, ha visto decrescere in maniera sostanziosa il reddito disponibile rispetto al 1990, con i dati al 2020 che fanno suonare il campanello d’allarme.

Rispetto a 30 anni fa, infatti, sono stati registrati cali del 2,9% nel salario reale paragonato a quello del 2020. Anno che, va sottolineato, ha risentito in maniera pesante della pandemia da Covid-19 e che ha visto poi la situazione economica aggravarsi sempre più.

Non è quindi una sorpresa l’ulteriore calo nel 2021, seguito da un -7,3% nel 2022 rispetto all’anno precedente. La causa? La crescita dei prezzi trainata dal rincaro dell’energia che ha ridotto pesantemente il potere d’acquisto delle famiglie che comprano sempre meno. E contemporaneamente il mancato aumento degli stipendi, ancora fermi agli standard di anni e anni fa. Per non considerare poi le condizioni lavorative alle quali devono sottostare in tanti, tra contratti stagionali o la piaga del lavoro in nero che ancora oggi non riesce a essere debellata.

Cos’è il salario reale

Per capire questo passo indietro, però, va specificato il significato di salario reale. Si intende, infatti, come il salario rapportato ai prezzi sul mercato.

Il calo del salario reale in Italia, dunque, va tradotto in un solo modo: i prezzi sono aumentati, ma gli stipendi sono rimasti sempre gli stessi. La conseguenza logica, quindi, è che il potere d’acquisto degli italiani si è assottigliato sempre di più, lasciando poco margine di manovra.

Il salario reale a confronto

Ma come si comportano gli altri Paesi? C’è chi se la passa meglio, e di molto, rispetto all’Italia. Anche perché nella classifica Ocse il Bel Paese viene considerato quello in cui, tra le grandi economie, i salari reali sono diminuiti di più.

I redditi sono cresciuti in Germania (2.7%) e in Repubblica Ceca (4.4%), molto di più in Francia, in cui il valore nominale dei salari è cresciuto indicativamente del 5%. In Italia, va sottolineato, l’aumento c’è stato ma solo dell’1%. Dato che ha portato al calo del salario reale anche negli anni in cui si parla con insistenza del salario minimo.

Infatti, come riferito da uno studio dell’associazione Adpt citato dal Corriere della Sera, l’aumento dei prezzi, così repentino e sproporzionato, ha completamente eroso l’aumento nominale delle retribuzioni contrattuali registratosi in questi anni: “Sebbene dal 2015, si sia riscontrata una crescita dei salari, anche in termini reali, nella maggior parte dei paesi europei, tale crescita, il cui trend già nel 2021 aveva subito un calo, fino a scendere drasticamente nel 2022, si è arrestata con l’aumento dell’inflazione”.

Pensioni, il governo ora pensa a una nuova “Quota 41” con l’assegno ridotto del 15 per cento

Tratto da PAmagazine

Sì a Quota 41, ma con il taglio dell’assegno del 15%, quindi accettando il ricalcolo del trattamento con il metodo contributivo integrale. Il governo torna alla carica sulle pensioni per cercare di smontare la riforma dell’ex ministra Fornero (pensione di vecchiaia a 67 anni più 20 di contributi e di anzianità con 42 di contributi). Obiettivo: offrire a migliaia di lavoratori l’opportunità di uscire anticipatamente da fabbriche e uffici.

Il compromesso

Una Quota 41 “pura” costerebbe 4 miliardi nel 2025 e 9 miliardi a regime: troppi soldi. Per questa ragione la maggioranza pensa a una modifica, sostanziale. Secondo i calcoli del governo, infatti, solo un impianto integralmente contributivo potrebbe reggere finanziariamente. Questo sistema determina l’importo della pensione in base alla quantità di contributi versati, anziché agli ultimi stipendi percepiti, come avviene con il sistema retributivo. Con il sistema contributivo, l’assegno pensionistico risulterebbe però notevolmente inferiore, come anticipato. Di quanto inferiore? Circa del 15 per cento.

 

Occorre ricordare che attualmente una formula di Quota 41 già c’è ed è riservata a specifiche categorie di lavoratori precoci, coloro che a 19 anni avevano già accumulato 12 mesi di contributi. Ma per accedere alla Quota 41 bisogna soddisfare ulteriori requisiti, come appartenere a una delle categorie di lavoratori vulnerabili, che vanno dai disoccupati agli invalidi, passando per caregiver e lavoratori con mansioni gravose. Inoltre, è richiesto di avere almeno un contributo settimanale versato nel sistema retributivo (prima di gennaio 1996). Coloro che rientrano in queste condizioni possono accedere alla pensione anticipata con soli 41 anni di contributi (invece dei 42 anni e 10 mesi per gli uomini e dei 41 anni e 10 mesi per le donne).

Prudenza

Con il meccanismo che il governo sta mettendo a punto la formula sarebbe estesa a tutti. Al ministero dell’Ecomomia restano comunque prudenti ricordando quanto è stato messo nero su bianco nel Def. Nel documento si legge che «la spesa per prestazioni sociali in denaro è attesa aumentare del 5,3 per cento nel 2024 e del 2,5 per cento in media all’anno nel triennio 2025-2027, con un aumento della spesa per pensioni del 5,8 per cento nel 2024 e del 2,9 per cento in media nel successivo triennio». Come a dire che, piuttosto che pensare a favorire l’esodo si dovrebbe tentare, piuttosto, di trattenere le persone al lavoro.

 

Infatti, il ministro Giancarlo Giorgetti preferirebbe la proroga di Quota 103 (uscita con tagli sugli assegni raggiungendo quella somma di contributi ed età). E questo perché i numeri previdenziali concedono pochi margini, in quanto è vero che i pensionati sono tornati a crescere lievemente nel 2023 a quota 16,13 milioni (tanto che dati Inps indicano una spesa di 248 miliardi in crescita di ben 17 rispetto all’anno precedente), con gli occupati che aumentano più rapidamente sfiorando i 23,3 milioni (oltre 400mila in più in un anno). Così il rapporto tra le due grandezze è salito a 1,44. Le proiezioni dicono che nel 2050 questo rapporto sarà di un 1 contro 1. Un dato insostenibile per poter garantire il pagamento delle pensioni, soprattutto perché i giovani che entrano oggi nel mercato del lavoro hanno carriere discontinue e salari bassi.

CCRL 2019/2021. Sottoscritte ieri alcune correzioni dovute a refusi o errori materiali. Finalmente l’ipotesi potrà essere inviata alla Corte dei Conti

Ieri pomeriggio, le Organizzazioni Sindacali rappresentative sono state convocate all’Aran per siglare alcune modifiche per errata corrige al testo del CCRL 2019/2021 già sottoscritto. Alcune correzioni dell’ipotesi del rinnovo del CCRL 2019-2021 non sostanziali ma dovute a refusi o errori materiali. Dopo la verifica di ieri pomeriggio, finalmente, l’ipotesi contrattuale potrà proseguire il suo percorso ed essere inviato alla Corte dei Conti per il controllo di rito sulla compatibilità, in particolare dei costi rispetto ai fondi inizialmente messi a disposizione dal Governo Regionale.

CCRL 2019-2021. Errata corrige

Tfs degli statali, finita la farsa del prestito. L’Inps è rimasto senza soldi

Tratto da PAmagazine

Ma sì! Facciamola finita con le finzioni, è inutile continuare a farci prendere in giro. Il 25 aprile scorso l’Inps ha comunicato che l’anticipazione ordinaria del Tfs e del Tfr in favore dei dipendenti pubblici andati in pensione per quest’anno è stata sospesa e quindi, “fino a nuova comunicazione, non è possibile per gli uffici credito delle sedi/poli territoriali e nazionali elaborare e trasmettere le bozze di proposta di cessione agli utenti”. Il regolamento prevede, infatti, che l’erogazione delle anticipazioni avvenga nei limiti delle disponibilità finanziarie destinate annualmente nel bilancio dell’Inps e dato che il plafond di quest’anno è stato già stato raggiunto, l’Inps ha deciso di chiudere i rubinetti. Del resto, era prevedibile che si arrivasse a questa situazione, visto che, a fronte di un arretrato di oltre 14 miliardi di euro, nel fondo di milioni ne erano stati stanziati solo 300, esauriti già entro la metà aprile.

Stop alla farsa

Dato che l’andazzo è questo vorrei allora dire a lor signori: lasciate perdere! Chiudiamola qui con questa farsa! Perché di farsa, e anche ben poco divertente, si tratta. Come ben sanno tutti i dipendenti pubblici, il Trattamento di fine servizio (Tfs) è retribuzione differita, al pari del Trattamento di fine rapporto (Tfr) dei dipendenti privati. Insomma, sono soldi del lavoratore che, come succede nel settore privato, andrebbero versati entro pochi mesi dall’andata in pensione. Peccato che il datore di lavoro pubblico ci metta anche sette anni prima di pagare queste somme, pratica illegittima, censurata da ben due sentenze della Corte costituzionale, l’ultima della quale, la n. 130, depositata il 23 giugno dello scorso anno, è stata molto esplicita nel censurare anche la soluzione tampone che era stata prevista dal governo, ossia una convenzione con le banche che permettesse almeno l’anticipazione sotto forma di prestito di una parte del Tfs (per una cifra non superiore ai 45 mila euro).

Il parere

Agli avvocati dello Stato che sostenevano che il prestito bancario risolveva ogni questione sui tempi troppo lunghi dei pagamenti, i giudici della corte hanno risposto in termini molto chiari: “Le normative richiamate investono solo indirettamente la disciplina dei tempi di corresponsione delle spettanze di fine servizio.Esse non apportano alcuna modifica alle norme in scrutinio, ma si limitano a riconoscere all’avente diritto la facoltà di evitare la percezione differita dell’indennità accedendo però al finanziamento oneroso delle stesse somme dovutegli a tale titolo. Il legislatore non ha, infatti, espunto dal sistema il meccanismo dilatorio all’origine della riscontrata violazione, né si è fatto carico della spesa necessaria a ripristinare l’ordine costituzionale violato, ma ha riversato sullo stesso lavoratore il costo della fruizione tempestiva di un emolumento che, essendo rapportato alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro, è parte del compenso dovuto per il servizio prestato”.

Sacrifici (in)visibili

Il succo di quanto sostenuto dalla Corte, insomma, è questo: non solo vi tenete in cassa, per un tempo assurdamente lungo, i soldi dei dipendenti, ma pensate pure di aver risolto il problema scaricando su di loro i costi dell’anticipazione, che non sono affatto bassi, visto che si calcolano sul cosiddetto rendistato (un tasso di interesse che anche a marzo si è attestato sopra la soglia di guardia, al 3,4%, sui livelli di gennaio) e sul livello di spread, il che, attualmente, continua a fissare gli interessi dei prestiti di durata più lunga al 4,5% annuo. L’attuale governo, certo di incassare la censura della Consulta, aveva provato però a mettere le mani avanti facendo circolare l’ipotesi di accollarsi direttamente gli interessi bancari (intenzione rimasta lettera morta) e poi nel febbraio 2023 aveva tirato fuori dal cappello un altro tipo di anticipazione di parte del Tfs, erogata però dall’Inps a costi calmierati (ossia l’1% annuo, più uno 0,5% una tantum per le spese amministrative). Si tratta della pratica di cui stiamo parlando ora, quella che dopo appena un anno è stata già archiviata per mancanza di fondi. Siamo, quindi, come già detto, alla farsa. Ma ora basta. Lasciate perdere le pezze a colori che non coprono questo vestito già troppo sbrindellato. Non vi inventate altre soluzioni cervellotiche.

Semplicemente: basta

La questione è semplice. Lo Stato è un datore di lavoro che tiene in cassa per anni i soldi dei suoi dipendenti, per finanziarsi a spese loro. E dal 2011 questo lo fa in forza di legge, ha cominciato il governo Monti varando una stretta sui dipendenti pubblici che mise insieme il blocco degli aumenti salariali e delle nuove assunzioni con lo slittamento delle buone uscite, che da allora vengono pagate, per lo più a rate, solo due anni dopo l’avvenuto collocamento a riposo. Ma questo solo se è già stata raggiunta l’età per la pensione di vecchiaia (attualmente 67 anni), perché se l’uscita dai ranghi pubblici avviene prima del fatidico compleanno, come nel caso dei prepensionamenti, il lavoratore deve comunque attendere i 67 anni per far scattare il fatidico biennio, ecco perché l’attesa del Tfs si può protrarre fino a 7 anni. Sono 13 anni che va avanti così, perché ogni governo che si è succeduto ha mantenuto in vigore queste norme, nonostante per due volte la Consulta le abbia bollate come incostituzionali.

In prima linea

Noi che quei ricorsi alla Corte li abbiamo promossi, abbiamo comunque dato prova di disponibilità, dichiarandoci pronti a discutere soluzioni ponte per smaltire l’arretrato e mettere regime, in tempi ragionevoli, il sistema delle buone uscite. Le uniche risposte che abbiamo ottenuto sono quelle che ho appena descritto. Oltre il danno, anche la beffa. A questo punto, cari signori, fate come credete, ci rivedremo ancora una volta di fronte a un giudice, questa volta non a Roma ma a Lussemburgo, vedremo a chi darà ragione la Corte Europea, se ai lavoratori o a chi sequestrato per anni i loro soldi.

Normativa c.d. taglia idonei: il TAR Lazio chiarisce la portata applicativa. Si sbloccano le assunzioni all’Agenzia delle Entrate

Tratto da PAmagazine.it e camminodiritto.it

Il Tar Lazio con la sentenza n.6362/2024 ha stabilito che l´Agenzia delle entrate abbia illegittimamente applicato la norma “taglia idonei” ad un concorso bandito prima dell’entrata in vigore della legge n. 112 del 2023. Trattandosi di normativa che limita il favor partecipationis, qualora un bando abbia richiamato una prima legge che ha previsto un meccanismo restrittivo per individuare gli idonei, l’Amministrazione deve conformarsi alla legge sopravvenuta che, nel disciplinare il medesimo meccanismo, abbia disposto in senso più favorevole per i partecipanti che esso trovi applicazione solo dopo la sua entrata in vigore.

Il Tar del Lazio ha stabilito che la normativa, fortemente voluta dal ministro Paolo Zangrillo, non si applica ai concorsi banditi prima del 17 agosto 2023. Il bando dell’Agenzia delle Entrate per assumere 3.970 funzionari per l’attività tributaria risale a luglio. Anche la pubblicazione del bando rivolto all’assunzione di 530 funzionari per i servizi di pubblicità immobiliare è antecedente al 17 agosto 2023, giorno in cui è entrata in vigore la legge di conversione che ha modificato la normativa sul taglia-idonei, introducendo il nuovo denominatore di calcolo tramite cui ricavare la percentuale del 20%.

Il riscatto dei periodi non coperti dai contributi previdenziali

Tratto da altalex.com

Quali periodi di ”buco contributivo” si possono riscattare, chi sono i beneficiari, come si calcola l’onere del riscatto.


Nella prassi lavorativa può capitare che il lavoratore si trovi ad avere dei “buchi contributivi” vale a dire dei periodi che non sono coperti dalla contribuzione obbligatoria che deve essere versata dal datore di lavoro e da quella figurativa che viene versata direttamente dall’ente previdenziale.

La presenza di “buchi contributivi” potrebbe incidere sul diritto all’accesso alla pensione.

In tale ipotesi, il lavoratore potrebbe essere costretto a lavorare oltre la maturazione del requisito anagrafico previsto dalla normativa vigente per poter raggiungere il requisito contributivo che gli consente di andare in pensione.

Nello stesso tempo, la presenza di buchi contributivi potrebbe incidere sull’ammontare del trattamento pensionistico.

Per esempio, quest’ultimo potrebbe aumentare grazie al riscatto della laurea che tuttavia non è oggetto di questa trattazione.

Il presente contributo invece analizza il riscatto dei periodi non coperti da contribuzione che è espressamente disciplinato dal decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 564, in particolare dagli articoli 5 a 8. ………continua a leggere

Norma taglia idonei: le nuove regole di scorrimento delle graduatorie dei Concorsi Pubblici

Tratto da concorsando.it

La norma taglia idonei rappresenta un cambiamento fondamentale nelle regole di scorrimento delle graduatorie dei concorsi pubblici a partire dal 22 Giugno 2023. Secondo questa norma, vengono ritenuti idonei i candidati che si posizionano entro il 20% dei posti disponibili subito dopo l’ultimo posto bandito. Il motivo dietro questa normativa è di rendere più efficiente il processo di selezione nella PA e garantire che solo i candidati più meritevoli vengano assunti.

In questo articolo ti forniremo una guida chiara e dettagliata su come queste regole influenzano l’assunzione e l’idoneità nella PA.

Ci preme inoltre evidenziarti che per ricevere dal nostro ChatBot Telegram notifiche sui futuri aggiornamenti dei principali Concorsi Pubblici ti basta cliccare qui.

Se le novità riguardanti le Assunzioni nella Pubblica Amministrazione al momento non ti interessano, puoi sempre dare un’occhiata ai Concorsi in arrivo o agli altri bandi in scadenza.

Indice

  • Scorrimento graduatorie Concorsi – Tutte le novità
    • Cosa si intende per scorrimento delle graduatorie
      • Le differenze tra idonei e vincitori di un concorso pubblico
    • Nuove regole di scorrimento graduatorie Concorsi 20% di idonei
      • Tetto Idonei al 20%: A chi si applica e le sue eccezioni
    • Come determinare il tetto idonei al 20% nei Concorsi Pubblici
    • Finalità e dettagli del tetto al 20% per gli idonei nei Concorsi PA
    • Rinuncia o dimissioni entro 6 Mesi
  • Norma taglia idonei – Da quando è efficace e per quali concorsi
    • Le direttive del Dipartimento della Funzione Pubblica

Scorrimento graduatorie Concorsi – Tutte le novità

Cosa si intende per scorrimento delle graduatorie

Quando si partecipa a un concorso pubblico, il processo di valutazione culmina nella creazione di una graduatoria. Questa lista rappresenta una classificazione dei candidati basata sul punteggio ottenuto, organizzata dal più alto al più basso. Tenendo conto delle riserve e dei titoli di preferenza, i candidati vengono posizionati in ordine di merito.

La Pubblica Amministrazione si serve di questa graduatoria per scegliere i candidati da assumere. E, a meno che non sia diversamente specificato nel bando, questa graduatoria rimane valida per un periodo determinato, durante il quale l’Amministrazione può continuare ad attingervi.

I posti di lavoro vengono assegnati partendo dai candidati in cima alla lista e proseguendo fino a che non vengono coperti tutti i posti indicati nel bando. Dopo aver assegnato i posti ai vincitori, ci sono i candidati idonei ma non vincitori. Questi ultimi hanno la possibilità di essere chiamati tramite lo scorrimento delle graduatorie. Di conseguenza, essere posizionati più in alto nella graduatoria aumenta le probabilità di assunzione e riduce i tempi di attesa.

Una novità significativa è stata introdotta dal Decreto PA 2023: il “tetto idonei“. Questa regolamentazione stabilisce che solo il 20% dei candidati posizionati dopo l’ultimo posto bandito può essere considerato idoneo. Questa nuova direttiva è specificata in dettaglio nel testo della Gazzetta Ufficiale n.143 del 21 Giugno 2023 all’articolo 1-bis, comma 1, lettera a), punto 2.

Ma, prima di addentrarci ulteriormente nel concetto del “tetto idonei”, esploriamo cosa significhi, in termini pratici, essere riconosciuti come idonei in una graduatoria di concorso pubblico e quali sono le differenze tra idonei e vincitori.

Le differenze tra idonei e vincitori di un concorso pubblico

Nel contesto dei concorsi pubblici nelle PA (Pubbliche Amministrazioni), una volta conclusa la procedura concorsuale, viene redatta una graduatoria in base ai risultati delle prove d’esame stabilite dal bando. Questa graduatoria finale distingue chiaramente tra:

  • Vincitori: coloro che sono inclusi nel numero dei posti banditi e, pertanto, vengono assunti immediatamente;
  • Idonei: candidati che, pur avendo superato con successo le prove d’esame, non si collocano tra i vincitori perché i posti disponibili sono limitati.

Mentre i vincitori vengono integrati immediatamente nella PA, gli idonei devono attendere. Nonostante non siano assunti all’istante, gli idonei hanno la possibilità di essere selezionati successivamente grazie al meccanismo dello scorrimento della graduatoria.

Nuove regole di scorrimento graduatorie Concorsi 20% di idonei

Dal 22 giugno 2023, con l’entrata in vigore di una nuova legge, vi è stata una svolta riguardo allo scorrimento delle graduatorie dei concorsi pubblici.

La nuova regolamentazione stabilisce che l’idoneità sia riconosciuta unicamente ai candidati che si posizionano nella graduatoria finale entro un margine del 20% dei posti subito dopo l’ultimo posto bandito, come specificato nell’articolo 1-bis, comma 1, lettera a), punto 2. del Decreto PA 2023.

Il decreto stabilisce anche una clausola chiave: il blocco allo scorrimento scatta anche “in caso di rinuncia all’assunzione o di dimissioni del dipendente entro 6 mesi dalla sua inclusione”.

Queste innovazioni legislative hanno generato diverse incertezze interpretative. Di conseguenza, la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha sollecitato un’analisi dettagliata al Ministro per la Pubblica Amministrazione.

Per dissipare ogni dubbio e fornire chiarezza, è stato emesso il parere n. 0001187 del Dipartimento Funzione Pubblica datato 16 giugno 2023, che offre un’illuminante definizione sull’ambito di applicazione e specifica le esclusioni previste.

Tetto Idonei al 20%: A chi si applica e le sue eccezioni

La nuova normativa sul tetto al 20% per gli idonei ha cambiato il panorama del reclutamento nella Pubblica Amministrazione. Sebbene sia una direttiva di ampia portata, non si applica indiscriminatamente a ogni concorso pubblico.

In particolare, le procedure concorsuali escluse dal nuovo regolamento di scorrimento delle graduatorie sono:

  1. Procedimenti concorsuali avviati da Regioni, Province, Enti locali o da entità controllate o partecipate da questi, quando i posti a concorso sono inferiori a 20 unità;
  2. Concorsi banditi dai Comuni con una popolazione al di sotto dei 3.000 abitanti, definiti come “piccoli comuni”;
  3. Concorsi destinati a assunzioni a tempo determinato.

Inoltre, sono esclusi dal tetto del 20%:

  • Concorsi per il personale sanitario e socio-sanitario, educativo e scolastico, compresi quelli presso servizi gestiti da Comuni o unioni di Comuni;
  • Reclutamento di ricercatori, personale accademico e dell’Istituto superiore di sanità;
  • Assunzioni del personale in regime di diritto pubblico come delineato dall’articolo 3 del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

Quando il tetto del 20% non è applicabile, le Pubbliche Amministrazioni seguono la regola classica, permettendo lo scorrimento della graduatoria di tutti gli idonei fino alla sua naturale scadenza.

Come termine di riferimento, l’articolo 35, comma 5ter del D.Lgs. 165/2001 (Testo unico sul pubblico impiego) stabilisce che le graduatorie per l’assunzione nella Pubblica Amministrazione hanno una validità di 2 anni dalla loro approvazione, a meno che leggi regionali non prevedano eccezioni. Una volta trascorsi questi due anni, la graduatoria viene considerata scaduta.

Come determinare il tetto idonei al 20% nei Concorsi Pubblici

Uno degli aspetti più dibattuti nella recente normativa sui concorsi pubblici riguarda il metodo di calcolo del tetto idonei al 20%. Questo limite non viene definito semplicemente in base ai posti banditi, ma ha una logica specifica che determina chi entra in questo gruppo di idonei.

In particolare, il 20% non viene calcolato sul totale dei posti messi a bando. Piuttosto, la cifra chiave è il numero di candidati elencati in graduatoria che seguono immediatamente quelli che hanno ottenuto i posti con diritto all’assunzione.

In altre parole, il calcolo del tetto al 20% si basa sui candidati presenti nella graduatoria finale che rientrano nel 20% successivo ai posti che non danno diritto all’assunzione immediata. È essenziale notare che, per determinare questa percentuale, non si considerano i posti totali banditi durante la selezione pubblica.

Finalità e dettagli del tetto al 20% per gli idonei nei Concorsi PA

La recente regolamentazione relativa ai concorsi pubblici ha introdotto un tetto per gli idonei. Ma quali sono gli obiettivi dietro questa norma? E come influisce sul reclutamento all’interno delle Pubbliche Amministrazioni?

Secondo il parere n. 0001187 del 16 giugno 2023 rilasciato dal Dipartimento Funzione Pubblica, la regolamentazione che stabilisce un tetto al 20% per gli idonei rispetto ai posti banditi nei concorsi PA ha scopi ben definiti:

  1. Migliorare la qualità del personale assunto: L’idea è che i candidati inseriti nella graduatoria entro questo limite del 20% sono quelli con valutazioni finali vicine a quelle dei vincitori del concorso.
  2. Accelerare le procedure concorsuali: con un obiettivo di conclusione entro un massimo di 180 giorni.
  3. Digitalizzare i concorsi e aumentarne la frequenza.

Rinuncia o dimissioni entro 6 Mesi

Un elemento fondamentale della nuova regolamentazione è legato alle rinunce o alle dimissioni. Se un vincitore di un concorso rinuncia al posto offerto o si dimette entro i primi 6 mesi, come previsto dal Decreto PA 2023 e confermato dal D.Lgs. 165/2001, l’amministrazione ha la facoltà di scorrere la graduatoria. Tuttavia, questo scorrimento è limitato al già citato tetto del 20%.

In pratica, se ci sono numerosi rinunciatari tra i vincitori, l’ente organizzatore del concorso non può attingere agli idonei oltre il limite del 20% stabilito. In presenza di posti vacanti, l’ente sarà quindi costretto a lanciare un nuovo concorso o adottare altre misure, come avvisi di mobilità o richieste di manifestazione d’interesse da parte di idonei in graduatorie di altri enti pubblici.

Norma taglia idonei – Da quando è efficace e per quali concorsi

La Norma Taglia-Idonei è entrata in vigore a partire dal 22 Giugno 2023, immediatamente dopo la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

Molti si chiedono se questa nuova disposizione riguardante il tetto degli idonei sia retroattiva. La risposta è chiara: no, non è retroattiva. Si applica solamente ai concorsi banditi successivamente al 22 Giugno 2023.

È essenziale sottolineare che questa norma è in vigore per tutti i concorsi banditi dal 22 Giugno 2023, indipendentemente dal fatto che venga esplicitamente citata nei bandi di concorso. Pertanto, anche se un bando non menziona direttamente questa regolamentazione, essa rimane comunque applicabile, garantendo standard uniformi in tutti i processi di selezione pubblica.

Le direttive del Dipartimento della Funzione Pubblica

Il Dipartimento della Funzione Pubblica ha recentemente evidenziato, in una nota ufficiale, l’importanza di accelerare le procedure concorsuali, di assicurare l’assunzione di personale altamente qualificato, di incrementare il numero di concorsi disponibili e di promuovere la digitalizzazione dei processi. Questi punti cardine mirano a ottimizzare le dinamiche di reclutamento nel settore pubblico, garantendo così servizi più efficienti e di maggiore qualità.

L’obiettivo principale di queste nuove linee guida è elevare il livello di competenza del personale assunto attraverso un processo selettivo più rigoroso e mirato. In particolare, si pone l’accento sull’importanza di selezionare candidati che si posizionano in alto nella graduatoria, avvicinandosi così al punteggio dei vincitori del concorso, per assicurare che solo i più meritevoli accedano alle posizioni disponibili.

La nota del Dipartimento sottolinea inoltre l’efficacia di un sistema integrato che valuta non solo la rapidità e la frequenza delle procedure concorsuali, che non dovrebbero superare i 180 giorni e si prevede un turnover annuale medio di circa 150.000 unità, ma anche il loro grado di digitalizzazione. Quest’ultimo aspetto è fondamentale per modernizzare e rendere più accessibili i concorsi, facilitando così la partecipazione di un maggior numero di candidati qualificati.

In conclusione, le nuove disposizioni del Dipartimento della Funzione Pubblica non solo affrontano le criticità precedenti ma pongono le basi per un miglioramento qualitativo e quantitativo del personale della pubblica amministrazione, attraverso processi più rapidi, frequenti e digitalizzati. Questi cambiamenti rappresentano un passo avanti significativo verso l’ottimizzazione dell’efficienza e della qualità dei servizi offerti ai cittadini.

Contestazione dei procedimenti disciplinari nel pubblico impiego: il parere della Cassazione

Tratto da lentepubblica.it

La recente sentenza della Corte di Cassazione 8740/2024 ha fornito alcuni interessanti chiarimenti sulle modalità di contestazione nei procedimenti disciplinari nel pubblico impiego.


Nello specifico, la sentenza della Corte di Cassazione ribadisce l’importanza della chiarezza e completezza nella contestazione dei procedimenti disciplinari, nonché della valutazione accurata delle prove da parte del giudice di merito.

In modo particolare ha espresso come elementi imprescindibili l’evidenza delle condotte contestate e della loro collocazione temporale e spaziale, richiamando l’articolo 55-bis del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, aggiornato dal Decreto Legislativo n. 75 del 2017, e l’articolo 24 della Costituzione.

Contestazione dei procedimenti disciplinari nel pubblico impiego: il parere della Cassazione

Nella decisione della Corte, sono stati esaminati vari argomenti riguardanti il procedimento disciplinare. Inizialmente, è stato respinto un argomento che sosteneva che il lavoratore non fosse stato informato adeguatamente sugli atti citati nella contestazione disciplinare. La Corte ha stabilito che la contestazione era conforme alla legge, poiché indicava chiaramente i comportamenti contestati e quando e dove erano avvenuti. Anche se si faceva riferimento a una segnalazione del dirigente, questo dettaglio non era rilevante una volta che i fatti erano stati contestati.

Un altro argomento riguardava la presunta mancanza di prove da parte del datore di lavoro. La Corte ha ribadito che i fatti contestati erano stati provati con documenti specifici, quindi non c’era bisogno di applicare la regola secondo cui se il denunciante non prova, l’accusato va assolto. Contestare le valutazioni del giudice di merito è stato considerato non valido.

Un terzo argomento, che metteva in discussione la validità delle prove presentate, è stato bocciato dalla Corte. È stato chiarito che il giudice può considerare prove non convenzionali, purché siano sufficienti per giungere a una conclusione e non compromettano il contraddittorio.

Inoltre, è stato respinto un argomento che contestava il modo in cui la Corte aveva valutato le prove presentate. La Corte ha affermato che la sua decisione si basava sull’analisi dei comportamenti della dipendente e sulle loro conseguenze, piuttosto che su dettagli specifici. La denuncia di violazione dell’art. 2697 c.c. è stata considerata incoerente con la decisione della Corte.

Le conclusioni dei giudici della Cassazione

In conclusione, secondo i giudici, in casi del genere va tutelato l’equilibrio tra il diritto del datore di lavoro di esercitare il proprio potere disciplinare e i diritti dei dipendenti alla difesa e alla giustizia. È fondamentale garantire che i procedimenti disciplinari siano condotti in modo equo e trasparente, rispettando il principio del contraddittorio e fornendo ai dipendenti la possibilità di difendersi adeguatamente. Inoltre, è importante riflettere sull’uso delle prove nel contesto dei procedimenti disciplinari: è essenziale che le prove siano sufficienti per stabilire la colpa o l’innocenza del dipendente, ma è altrettanto importante evitare che il processo diventi una caccia alle streghe basata su prove deboli o mal interpretate. La valutazione delle prove dovrebbe essere pertanto sempre guidata da principi di equità e imparzialità.

Il testo della sentenza

Qui il documento completo.